Tragieroticomico

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Vi annuncio con gioia la nascita della mia creatura, “Dipingo Affreschi Erotici Pompeiani”, il romanzo tragieroticomico che stavate aspettando: umorismo, erotismo ed esoterismo si fondono per dar vita ad una storia originale e dagli esiti imprevedibili.

La Redazione dell’editore Fazi ha riconosciuto a questo romanzo “[…] una scrittura fluida e agile, un buon senso del ritmo”. A chi si chiedesse perché non lo hanno pubblicato loro, la risposta è nella conclusiva definizione “[…] di difficile collocazione all’interno della collana di narrativa italiana Fazi”. Gosh.

Un Redattore dell’editore ES ha definito il libro con le seguenti parole, (estrapolate dalla mail di recensione ricevuta): […] non trattasi di un romanzo qualunque ma di una colata lavica […] hai una dote rara in una donna: un sacco di senso dell’umorismo. E poi un’altra cosa che conta è che il tuo libro è comico, anche, naturalmente, picaresco forse anche troppo qualcosa di simile, alla lontanissima, alle 11.000 verghe di Apollinaire. […] Purtroppo non so ci sia per l’editoria almeno per come la conosco io ma anche su questo si può discutere. Da noi le probabilità sono minime ma spero che ne parleremo presto”. “Presto” appresi che le probabilità in ES non erano minime, ma nulle.

Infine c’è la recensione dell’editore Aliberti, il quale così si è espresso: “l’ho trovato originale, "mosso", ricco di spunti […] in questo momento non siamo in grado di fare proposte editoriali con un minimo di certezza sui tempi di uscita”.

Siccome non voglio aspettare che le mie nipoti lo pubblichino postumo, eccolo qui.

L’ho pubblicato sul sito ilmiolibro.it, del gruppo editoriale L’Espresso, e lo troverete in vendita nella Vetrina del Sito:

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro.asp?id=118205.

190 pagine di Argento 100%, e sono sicura che lo troverete divertente, e vi chiederete "cosa aspetta Mondadori a comprarne i diritti?".

 Ecco qui un assaggio delle prime pagine!

 

IN UN TEMPO LONTANO DA QUI

 

 

La sento sfrigolare nell’aria, sta arrivando la primavera. Finalmente. I colori della campagna sono ancora indifferenti a questo lieve indizio, l’erba è sempre gialla, stenta a riprendersi dalla galaverna. Il gelo è penetrato in ogni poro della terra secca.

Questo inverno è stato più rigido di qualunque altro, sembrava che vestirsi non bastasse mai a sciogliere il ghiaccio nelle ossa. Adesso però c’è qualcosa nel vento di scirocco, si sente un morbido sussurro di vita nuova.

 Il sentiero è deserto, ma le orme marchiate profonde nel terreno raccontano di uomini dalle scarpe grosse e pesanti.

Tre spari, quasi all’unisono, frantumano il silenzio di questo cielo fragile come uno specchio sottile e richiamano ogni cosa alla paura immobile: solo un istante, smetto di respirare e di pensare, sento battere il cuore veloce e intensamente, ogni altro muscolo è bloccato.

Panico.

Lo so, adesso so che ho sbagliato qualcosa. Inizio a camminare a passi ampi e veloci con le mie grandi scarpe logore; ora corro e so che c’è qualcuno che mi segue, sento i suoi passi e l’affanno dietro di me. Urla qualcosa, «Halt!»; invece di fermarmi accelero l’andatura, capisco fin troppo bene che devo scappare, essere più veloce di lui. Sono tra le colline, nella mia terra, ogni fascia è la mia casa, ma non so dove andare, qui non sono più al sicuro, lui mi corre dietro veloce, con una falcata energica, un elefante scappato dal circo. Cosa ho visto che non dovevo? Cosa vuole da me quest’uomo? Paura terrore angoscia, il cuore che pulsa forte da squarciare il petto e il suo suono sovrasta ogni cosa; scappo via sperando che la terra arida e spoglia mi possa proteggere con una buca, un anfratto, qualcosa in cui nascondermi; la voce dell’uomo mi raggiunge di nuovo, come se a parlare fosse un mastino rabbioso: «Halt oder schiesse ich! Du dreckige Hure![1]», e poi sento qualcosa che vola veloce bucando l’aria come uno strappo sottile e preciso, vola veloce verso di me, rapido dentro me, e in un attimo si ferma tutto.

Silenzio, come in fondo al mare.

Basta un istante e mi esplode sulla schiena un dolore violento e feroce, dentro il petto sento qualcosa di freddo che si liquefa, un dolore rovente e gelido insieme, come fossero la stessa cosa. Cado a terra, le gambe di una bambola di pezza abbandonata finito il gioco, e in pochi istanti interminabili in cui riesco solo a guardare il cielo brillante di marzo, ho appena la forza di tenere gli occhi aperti, sono stanca sgomenta e triste, infinitamente triste mentre comprendo l’imminenza della fine d’ogni cosa. Guardo ancora l’immagine del cielo sbriciolata in fondo ai miei occhi, non posso fare altro, tutto si è fermato attorno a pochi frammenti di cielo e di terra. La mia vita è disciolta nel sangue che bagna la terra secca e non la impregna; si spegne lentamente, eppure sembra un lampo, il mio sguardo smarrito sulle cose, sugli ultimi vapori del mio corpo che abbracciano disperatamente l’aria: la vita scorre fuori dalla schiena, veloce e lenta, rapida e calma, calda e fredda, molle e dura, come se gli opposti infine fossero la stessa cosa. È strana la morte, sembra che abbracci la vita invece la strangola.

Rimango immobile, attonita, mi sento imbrogliata e stupida, è una cosa sciocca morire adesso, quando questi giorni gelidi e neri stavano per finire, quando tutto questo dolore poteva essere dimenticato dentro il conforto di un sole nuovo, di un caldo e forte abbraccio.

 Adesso non sento più neppure il freddo, si fa buio e nulla ha più colore e importanza.

 

Beatrice apre gli occhi nel buio, svegliata dal tamburo forsennato della tachicardia. Impiega alcuni istanti per rendersi conto che è viva, nel suo letto. Un incubo inquietante, sempre lo stesso. Da anni ormai, si desta alle prime luci del mattino col cuore che pompa impazzito, ai limiti dell’infarto. Non si chiede quasi mai quali siano le problematiche psicologiche irrisolte che lo producono, quali messaggi le stia inviando l’inconscio: le riesce più comodo associare il sogno ad una manifestazione creativa della propria immaginazione, una sorta di contaminazione cinematografica con risvolti esoterici. Si domanda sempre se la sera precedente ha mangiato pesante, per giungere invariabilmente all’assoluzione con formula piena della propria cena. Così come sta facendo in questo momento: in fondo, riflette, cosa saranno mai due piatti di pasta con le sardine e il provolone, una porzione di acciughe infestate di aglio e prezzemolo e asparagi al forno? Beatrice non ha potuto dire no neppure ad un bel piatto di peperoni con capperi e due coppe di tiramisù fatto dalle mani sante della suocera della sorella Irene. Omette dall’elenco la mela rossa mangiata per smorzare quel inquieto languorino post prandiale che la pungola quando tarda a sopraggiungere il senso di sazietà. Per l’esattezza si è trattato di una mela e nove gianduiotti. Dulcis in fundo. Senza alcun accenno di vergogna, Beatrice lo definisce “un pasto leggero” , lo standard di una “buona forchetta” o, come dice affettuosamente sua madre, di una cloaca maxima.

Nei suoi pensieri sonnacchiosi, tipici del lento risveglio in una tranquilla domenica mattina, rileviamo però un’altra macroscopica omissione nell’inventario mentale di quanto mangiato il giorno precedente, che da sola potrebbe giustificare il peggiore degli incubi di matrice gastrica: il banchetto nuziale della sorella Federica, dove Beatrice ha ingerito copiose quantità di cibo. Per sei ore consecutive. Ma ad essere obiettivi, le sue capacità digestive appartengono al mondo del non-spiegabile-scientificamente e perciò con buona probabilità l’incubo ha origine in un luogo canonico: le pieghe oscure della sua mente. Il crucco abita da tempo nei sogni di Beatrice, la insegue, la insulta e poi le spara alla schiena. Bang. Ogni volta. Senza scampo o variazioni sul tema.

Ritiene responsabili i nonni, che durante l’infanzia si contendevano lo schieramento ideologico delle nipoti: le riempivano la testa coi loro ricordi di gioventù e le loro contrapposte scelte politiche, e lei non sapeva mai chi fosse nel giusto perché voleva bene ad entrambi. Alberto, il nonno materno, militare durante il secondo conflitto mondiale, divenuto un repubblichino dopo l’8 settembre, le diceva che durante il Fascismo si viveva benissimo e il Duce era un grand’uomo. E Luigi, il nonno paterno partigiano, che non avrebbe mai voluto imparentarsi con un fascista: le faceva vedere solo film di guerra, cercava nel cinema rimasugli della sua giovinezza eroica e inesorabilmente lontana, per spiegarle da che parte doveva allinearsi. Raggiunta l’età della ragione, quando ormai erano morti entrambi, Beatrice scelse l’orientamento di Luigi, però assolse benevolmente anche Alberto: in fondo la sua non era mera apologia del Fascismo, ma una malinconica venerazione della propria gioventù, elevata nei ricordi a mito intrepido e avventuroso.

 

Beatrice è ancora sdraiata sul letto, stira le gambe sotto le lenzuola e poi si gira, guarda Leopoldo che dorme, ascolta il suo respiro lieve e indugiando sul contorno delle sue labbra ricorda altri dettagli dell’incubo ricorrente: quando cade a terra colpita a morte, compare anche un uomo che si avvicina, il suo volto è rigato di lacrime. Misteri dell’inconscio sui quali non ha più voglia di soffermarsi.

Che ora sarà? Intuisce il giorno inoltrato tra le fessure delle persiane, poi cerca il display della sveglia digitale che proietta i numeri sul soffitto. Solleva gli occhi, sono quasi le 09:33. Si trastulla ancora un po’ con pensieri pigri e senza contorni, quasi fossero avanzi di sogni. L’orologio adesso segna le 10:00.

Poco più di ventiquattro ore fa stava per cominciare un giorno molto impegnativo per Beatrice: svegliandosi dal solito incubo ha desiderato persino che il tedesco del sogno l’avesse uccisa per davvero. Se fosse stato un sabato qualunque Beatrice avrebbe fatto l’amore con Leopoldo, si sarebbero alzati con comodo, colazione, commissioni in centro città e poi una corsa al parco con lui. Invece aveva dovuto ricomporre il proprio volto per renderlo presentabile al matrimonio della sorella, dopo una notte in bianco a lavorare, lei e le sue due socie Marina e Francesca, sorelle gemelle eterozigoti. Finalmente, dopo anni di tentativi falliti, hanno superato la prima fase di un prestigioso Concorso Internazionale d’Architettura. Venerdì sera il sogno di una vita meritava un brindisi propiziatorio al superamento della successiva selezione, ma soprattutto richiedeva molto lavoro, improcrastinabile alla luce della scadenza ravvicinata del Concorso.

Nessuno in famiglia crede però che ce la possano fare: la mancanza di fiducia è trasparente e non occorre un manuale sul linguaggio del corpo per interpretare gli sguardi di compassione, le spalle scrollate, gli sbuffi accompagnati da occhi spazientiti sollevati al cielo in cerca di misericordia. Irene, la sorella maggiore, pensa in modo dolorosamente realistico che se non è riuscita a fare l’Architetto con la A maiuscola quando era a Londra non ci riuscirà mai. Anche zia Agata, il suo principale surrogato genitoriale, la disapprova apertamente e le suggerisce di continuo di regolarizzare i propri bioritmi smettendo di trascorrere buona parte della notte a lavorare; la zietta si premura spesso di ricordarle che sta invecchiando e che rimarrà con un pugno di mosche in mano, un po’ com’è successo a lei, nubile e tormentata dai rimpianti. Ma Beatrice pensa che sia presto per avere una famiglia quando ancora non è riuscita a realizzare le sue ambizioni professionali. C’era andata così vicino quando era a Londra, e poi tutto era andato storto. Neppure il suo talento, la sua sconfinata dedizione al lavoro erano serviti ad evitarle la disfatta totale.

L’unico familiare che la sostiene è la madre, ma purtroppo Marianna non vive più a Genova con le figlie, è in Australia, dall’altra parte del mondo. Forse è più facile essere comprensivi quando non vedi con i tuoi occhi la faccia di tua figlia dopo una notte insonne. Assurdi sogni ad occhi aperti, come direbbe Irene. Marianna invece è una di quelle persone che credono la vita abbia gusto solo quando ci sono grandi sogni da realizzare, soprattutto quelli che sembrano impossibili. E Beatrice è come lei.

Si rammarica che la madre non fosse alla cerimonia. Ma d’altra parte Federica non è sua figlia. Il matrimonio della sorellastra e Michele era in Riviera, in una caratteristica chiesetta vista mare sopra Camogli, alle 11 in punto. Sapeva cosa l’aspettava mentre si preparava ieri mattina con Leopoldo: i soliti riti tristi e consunti, le foto, i video e soprattutto ciò che più temeva, le zie che le avrebbero domandato fiduciose “la prossima sei tu, cara…?”; zia Luciana ha malignamente profetizzato che, se continua così, con buona probabilità si sposerà prima la nipote Emma, che adesso ha già sei anni e tre fidanzatini a rotazione settimanale.

Ha provato a schivare il lancio del bouquet, ma Federica gliel’ha tirato proprio dritto in faccia. Leopoldo a quel punto le ha sorriso con espressione complice e Beatrice, sputando un bocciolo rosa, gli ha detto con rassegnazione “ok, magari a settembre”. Senza precisare di quale anno.


[1] “Fermati troia schifosa! Fermati o sparo!”

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